Grammichele, la “città perfetta”: una new-town nata dopo il terremoto del 1693

Storia, arte e cultura di Grammichele, la "città perfetta" nata come una new town dopo il terremoto del 1693 per gli sfollati di Occhiolà. E' unica al mondo per le caratteristiche architettoniche della sua pianta esagonale
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Grammichele è una cittadina di oltre 12 mila abitanti situata nel cuore della Sicilia sud/orientale, all’estremità meridionale della provincia di Catania, confinante con la vicinissima e più famosa Caltagirone che dista appena 10 chilometri. La principale caratteristica di Grammichele è la sua pianta esagonale, un esempio di architettura urbana più unico che raro in Italia. Ancor più affascinante la storia di questo centro abitato: si tratta di una new-town costruita dopo il terremoto del 1693 per i senza tetto di Occhiolà, l’antica città sicula di Echetla, situata sui crinali della collina di Terravecchia dove ancora oggi si trovano i resti del castello medioevale.

Occhiolà venne rasa al suolo dal devastante terremoto dell’11 gennaio 1693 (magnitudo stimata 7.7, il più forte della storia d’Italia), come molti altri centri della Val di Noto, e dopo tre mesi dalla scossa, il 18 aprile 1693, don Carlo Maria Carafa Branciforti, Principe di Butera e Roccella, decidese di mettere a disposizione dei superstiti un terreno su un suo feudo chiamato “Gran Miceli”, circa 2km a valle dalla collina di Terravecchia dove erano rimaste solo macerie, su cui edificare la nuova città realizzata su una pianta esagonale, scelta urbanistica che fu adottata anche ad Avola in quegli anni ma con minor successo.

A Grammichele, infatti, la città è nata intorno ad una piazza esagonale con gli angoli chiusi (la più grande di questo tipo in Europa) intorno a cui si snodano 5 arterie anulari e da cui partono altre 6 arterie perpendicolari alle prime, che si immettono in altrettante piazze rettangolari ad angoli chiusi con accesso al centro dei lati. Queste piazze, a loro volta, generano altrettanti quartieri rettangolari periferici con una rete viaria ortogonale, disposta tutt’intorno alla zona centrale esagonale. E’ l’ennesima testimonianza di quanto le new-town possono rappresentare, in momenti drammatici, occasioni di grande sviluppo artistico, culturale, storico e identitario.

Lo storico Claudio D’Angelo ha raccontato così il terremoto del 1693 nella Sicilia orientale: “La grande scossa dell’11 gennaio ebbe un forte impatto anche sull’ambiente naturale, producendo effetti d’intensità e dimensioni notevoli su un’area molto vasta. In molte località della Sicilia orientale, sparse tra Messina e l’area iblea, si aprirono fenditure nel terreno dalle quali, in molti casi, furono segnalate fuoriuscite di gas o di acque calde e altri materiali fluidi. Nel territorio ibleo, dove si ebbero i massimi effetti, ci furono frane e smottamenti, che in alcuni casi sbarrarono e ostruirono corsi d’acqua portando alla formazione di nuovi invasi. Tutto il periodo sismico fu, inoltre, accompagnato da un’intensa attività dell’Etna. Altri effetti rilevanti furono quelli di maremoto. La scossa dell’11 gennaio generò ondate di tsunami che investirono varie località della costa orientale della Sicilia, da Messina a Siracusa. Gli effetti più gravi si ebbero ad Augusta, dove l’onda di maremoto raggiunse l’altezza di 30 cubiti (circa 15 metri) danneggiando le galere dei Cavalieri di Malta ancorate in rada e inondando la parte della città prospiciente il porto. A Catania il mare dapprima si ritirò dalla spiaggia per alcune decine di metri, trascinando alcune barche ancorate presso la riva, poi a più riprese si riversò violentemente sulla costa con onde alte oltre 2 metri che entrarono in città fino alla piazza San Filippo (l’attuale piazza Mazzini). Le condizioni dei sopravvissuti nei mesi successivi al disastro furono di estrema precarietà, tra continue scosse, scarsità di viveri e di beni di prima necessità, mancanza di medici necessari per curare i tantissimi feriti, il costante rischio di epidemie. Catania fu praticamente abbandonata e rimase in mano agli sciacalli e ai ladri. Gli effetti del disastro sismico sul tessuto sociale ed economico della vasta area colpita furono pesantissimi. L’impatto fu aggravato dal fatto che la situazione economica del regno era già duramente provata da una grave recessione che aveva colpito gran parte dell’Italia a più riprese nel corso del XVII secolo. Tuttavia, se il terremoto nei primi tempi dell’emergenza ebbe l’effetto di deprimere ulteriormente la già precaria economia siciliana, nel medio termine, invece, fece da volano per la ripresa economica, avvenne una colossale e problematica opera di ricostruzione e di riedificazione che modificò radicalmente l’intera rete insediativa di un’ampia parte della Sicilia. Infatti, la ricostruzione fu incentivata dalla vasta attività edilizia che investì tutta l’area colpita, attraverso progetti imponenti di ricostruzione e spesso di rifondazione d’intere città e paesi, che richiamando molta manodopera riattivarono l’intero ciclo produttivo. Da questo punto di vista, il terremoto del 1693 rappresenta nella storia italiana uno dei pochi casi in cui un disastro sismico si è rivelato occasione di sviluppo e di rilancio economico per le zone colpite. I cambiamenti di sito furono complessivamente pochi, perché richiedevano l’assenso della popolazione e il parere favorevole del viceré: fra gli insediamenti ricostruiti in un luogo completamente diverso da quello antico, ci sono Noto, Avola, Occhiolà (l’attuale Grammichele), Giarratana, Sortino, Biscari (Acate), Monterosso, Fenicia Moncata (Belpasso). A tal proposito mi preme segnalarvi un bellissimo libro, “La città perfetta”, scritto da Giuseppe Palermo che ci parla della città di Occhiolà abbandonata dopo l’evento sismico del 1693, e ricostruita, grazie all’apporto del principe Carlo Maria Carafa che edificò, a pochi chilometri di distanza, la prima città in Europa con pianta esagonale, attribuendole il nome di “Grammichele”. Il libro ci parla del percorso tortuoso e difficile dei cittadini di Occhiolà, le mille insidie incontrate, la sofferenza di quei cittadini e la voglia di rinascita“.

Per vivere la storia di Grammichele, è consigliata la visita del Museo Civico che sorge nella centralissima piazza esagonale della città, in alcuni ambienti del bellissimo Municipio, che si trova accanto all’altrettanto meraviglioso Duomo di San Michele Arcangelo e Santa Caterina d’Alessandria, le due principali attrazioni artistiche e culturali della città.

Il pane del Principe di Butera di Giuseppe Palermo

 

La sera del 17 aprile 1693 scese in silenzio sul piano degli asfodeli. Era primavera. Il cielo era terso come un cristallo e le stelle si accendevano ad una ad una, come coccinelle, mentre i bagliori del Sole svanivano all’orizzonte sull’ampia volta. Don Micciardo era lì fuori dal pagliaio a contemplare quello spettacolo. Molti altri superstiti del terremoto non dormirono quella notte. Don Micciardo ogni tanto chiudeva gli occhi e, come se la sua testa fosse presa dalle vertigini, tornava ad Occhiolà e gli pareva di essere ancora lì, dentro la sua canonica, accanto alla Matrice, sul colle di san Nicola. A volte durante il sonno, di notte, sobbalzava, credendo di celebrare messa per la Madonna del Monserrato o del Carmine. A volte gli sembrava di essere a Santa Venera o a San Leonardo. Si svegliava e gridava “Santa Vennira, Santa Vennira!” Ma non c’era più niente, solo il pagliaio. Così apriva gli occhi e mirava lo stoppino della candela liquefatta che si spegneva. Tornava a letto e sussurrava “iù mi curcu nta stu liettu, Gesù miu, dammi riggiettu”. Mille ricordi affollavano la sua mente, come un vespaio, quando è sotto attacco. Pensava ai molti che erano rimasti sotto le macerie. Per giorni si erano sentiti i lamenti, ma non era stato possibile rimuovere tutte le pietre. Occhiolà era ormai un cimitero. E i superstiti non volevano più tornarci. Don Micciardo lo sapeva, ma dava coraggio. Massaro Carmine insieme ad altri aveva costruito un forno a legna con ciaramiti e gesso e aveva messo all’opera la zza Carmina, sua moglie, e le sue comari. Il Principe aveva portato da Mazzarino sacchi di farina e frumento e così il massaro si era armato di buona volontà. Avevano fatto il pane di casa. Gli anziani superstiti si erano alzati presto, avevano armato con quattro tavole una maida grande e avevano preparato tutto per l’impasto. La zza Carmina impastava che era un piacere e sembrava che facesse a pugni con la pasta che man mano si raggrumava e cresceva. La gna Bastiana aveva preparato il letto con le tovaglie bianche bianche per fare lievitare le cuddure. Due capitane che in poco tempo avevano impastato due munnia di farina e ce ne doveva essere per tutti pane di casa fresco. Massa Carmine e altri ardevano il forno e ricordavano i bei tempi di Occhiolà. Quando la volta del forno era imbiancata, era ora. Si passava lo scopazzo bagnato, dopo aver tirato i carboni nella tannura, poi con la pala ad uno ad uno si prendevano i pani e si infornavano. Ad ogni pane che la zza Carmina prendeva dal letto si faceva il segno della croce e lo batteva con le mani che le sembrava come la pancia dei bambini tesa tesa quando gli scongiurava i vermi. Una, due infornate. “A nomu di Diu, ca è nomu sicuru”. Quando erano cotti, si sfornavano i pani e con un lembo del lenzuolo si ripuliva la cenere. Massa Carmine aveva preparato tre canestri: uno per il Principe, l’altro per don Micciardo, il terzo per fra Michele. Poi andarono nel padiglione del Carafa: “Eccellenza questo è per voi, tanta grazia di Dio che ci avete portato da Mazzarino, tanto aiuto, avete un cuore grande e buono come questi pani. Solo questo possiamo dare a Vossignoria a lode e gratitudine della nuova città che domani fonderete per tutti”. Finiti i bagliori del tramonto, la Notte scacciò la Sera. Lentamente sui pagliai scese la quiete. Solo il Principe vegliava a quell’ora e con l’astrolabio osservava i pianeti nel cielo buio, attendendo l’alba della città nuova di Grammichele.

la città perfetta

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